venerdì 8 luglio 2016

Essere arbereshe oggi

Spesso mi sono sentita chiedere quale fosse la lingua, che stessi parlando, come mai la parlassi o se la sapessi scrivere.
La mia lingua si chiama arbereshe, così come l’arbereshe è la mia cultura, la mia identità, ciò che sono io e le persone che abitano a Carfizzi, il mio paese, adagiato su una collina del crotonese.
Ma cosa significa, oggi, essere arbereshe?
Significa portare con sé un patrimonio culturale diverso, rispetto a quello degli altri, più ricco, più profondo. I miei antenati sono giunti, qui, sulle coste calabre, dall’Albania, o dall’arberia, come si chiamava allora. Quegli antenati hanno fondato tre villaggi e sono riusciti a tramandare gli usi, i costumi ed una lingua, che riescono a far rivivere l’eco di sapori lontani.
Una lingua antica, che, ancora oggi, viene parlata da bocche giovani, una lingua che ha attraversato il tempo, che riesce a sopravvivere, nonostante tutto e nonostante tutti. Io so parlare l’arbereshe e sono fiera di saperlo fare, perché l’idioma è cultura, ma soprattutto è identificazione ed appartenenza.
Io appartengo a questo mondo, io appartengo ai colori vivaci delle coperte di mia nonna, io appartengo ai sapori antichi dei dolci della mia tradizione, io appartengo ai valori di cordialità ed ospitalità, che la mia cultura mi ha trasmesso e continua a trasmettermi, ma che, soprattutto, io dovrò continuare, fieramente a portare avanti, per non disperderli, per non farli scomparire, per portarli sempre con me.

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